L’insegnamento basato sull’inquiry è diventato un punto fondamentale dell’educazione scientifica in ambito internazionale (Minstrell & van Zee, 2000; National Research Council, 1996; Rocard, 2007). Approfondendo un po’ l’IBSE, però, e riflettendo sul fatto che abbiamo due, massimo tre ore alla settimana e classi di trenta studenti, credo venga spontaneo chiedersi se questo approccio sia effettivamente una sfida possibile per la scuola italiana.

Quelle che ci sembrano barriere strutturali tipiche della nostra scuola (tempo, risorse, elevato numero di alunni per classe, formazione dei docenti…) in realtà sono barriere strutturali che emergono anche dalle ricerche in ambito internazionale (Anderson, 2002; Minstrell & van Zee, 2000).

L’insegnamento basato sull’inquiry è intrinsecamente difficile (Meyer ed Avery, 2007) e il fatto che il curriculum scolastico sia ancora fortemente dominato dal libro di testo, in Italia come in Europa, non aiuta.

Come sempre, però, la logica dei piccoli passi è quella non solo “energeticamente” più sostenibile ma anche quella più corretta.

Il primo passo per introdurre l’inquiry nella propria didattica può essere quello di cominciare con ibsel’invertire la sequenza spiegazione-attività sperimentale tipica dell’insegnamento tradizionale (Patrick Brown e Sandra Abell, 2007). Le ricerche ci dicono che perché l’apprendimento possa diventare profondo e significativo gli studenti hanno bisogno di collegare le nuove idee alla loro esperienza (Bransford, Brown e Cocking 2001) e che quando l’introduzione di nuovi concetti segue l’esplorazione dei fenomeni gli studenti imparano meglio (Abraham e Renner, 1986): maggiore persistenza di quanto appreso (Abraham e Birnie, 1988), punteggi più alti nei test basati sul ragionamento scientifico (Gerber, Cavallo e Marek, 2001), maggiore coinvolgimento e comprensione profonda (Beeth e Hewson, 1999).

Quindi, dicevamo, il primo passo verso il cambiamento è cominciare col fare esplorare i fenomeni prima che vengano spiegati.

Le prime “incursioni” nell’inquiry possono causare frustrazione negli studenti, che si sentono molto più a loro agio quando sanno trovare la risposta “corretta” alle domande poste dall’insegnante, ma può essere fonte di disagio anche per gli insegnanti che sono soliti utilizzare protocolli di sperimentazione consolidati con cui riescono anche a gestire in modo più “ordinato” la classe. Io vi invito, però, a provare e tener duro perché, nonostante le difficoltà iniziali, l’inquiry ripaga gli sforzi stimolando il coinvolgimento degli studenti (ma non solo!) e aiutandoli anche a sviluppare abilità di pensiero di ordine superiore in quanto sono costretti ad analizzare dati/informazioni per generare argomentazioni scientifiche.

Sia gli insegnanti che gli studenti hanno, però, bisogno di tempo per sviluppare le competenze necessarie per un inquiry efficace per cui i ricercatori consigliano di approcciarsi all’inquiry attraverso piccoli cambiamenti nelle nostre attività didattiche in modo da spostare gradualmente la responsabilità dell’apprendere dall’insegnante agli studenti.

Piccoli cambiamenti: il riconoscimento delle biomolecole negli alimenti

Cominciare facendo cambiamenti piccoli è importante perché in questo modo gli studenti possono concentrarsi sulla costruzione di poche abilità particolari alla volta invece che su tutte le abilità insieme. Ok, ma come?

L’IBSE è un approccio didattico che può essere implementato in moltissimi modi diversi. Attenzione però, per fare IBSE in classe non basta semplicemente “anticipare” le attività sperimentali a prima della spiegazione. Dalle ricerche emerge che l’esperienza concreta (le cosiddette “hands-on”) da sola non è sufficiente per l’apprendimento significativo e che gli studenti hanno, invece, il massimo del beneficio quando le attività sono inserite in quello che viene definito learning cycle (Renner, Abraham e Birnie 1988) che li aiuta a dare senso alle idee scientifiche, migliorare la capacità di ragionare in modo scientifico e aumenta il loro coinvolgimento e la motivazione allo studio.

L’ideale a cui tendere è, quindi, progettare attività con il learning cycle, ma per cominciare la cosa migliore è prendere confidenza con l’inquiry imparando a modificare le attività sperimentali che conosciamo meglio e solo dopo aver fatto un po’ di pratica cominciare ad “allargare il respiro”.

Qualche mese fa ho letto un interessante articolo di Elizabeth Unsworth su come trasformare un laboratorio standard di biochimica sulle macromolecole che mi ha fatto venire voglia di provare a trasformare anche la mia classica attività per il riconoscimento delle biomolecole negli alimenti in una investigazione scientifica. Provo a raccontarvi com’è andata.

Step n.1: non solo trasformazione “temporale”

Classi seconde, liceo scientifico. Invece di utilizzare questa attività di laboratorio al termine di un’unità sulle biomolecole facendo semplicemente testare la presenza di macromolecole nei cibi con gli opportuni indicatori, ho cominciato l’unità sulle biomolecole invertendo la sequenza spiegazione-verifica sperimentale.

L’attività classica, che bene o male tutti i docenti di scienze conoscono e/o praticano con le proprie classi, tipicamente non permette agli studenti di scoprire alcunché ma fa semplicemente verificare le informazioni acquisite attraverso la spiegazione del docente: gli studenti si limitano a seguire i vari passaggi di un protocollo predefinito in cui c’è una sola risposta corretta.

Un buon esempio di questo tipo di protocollo potrebbe essere questo:

Se ben strutturata, questo tipo di attività può comunque rientrare in quello che alcuni ricercatori chiamano livello di inquiry confermativo ( Banchi, Bell, 2008), in cui vengono fornite le domande, le procedure e anche risultati in anticipo. Questo tipo di inquiry, non da tutti considerato tale, può essere comunque utile quando lo scopo dell’insegnante è quello di

  • rinforzare un’idea introdotta precedentemente (ad esempio, possono rientrare in questa categoria le attività di laboratorio presenti sui libri di testo alla fine di un capitolo che servono a verificare un concetto che è già stato spiegato);
  • introdurre gli studenti all’esperienza del condurre investigazioni;
  • fare impratichire gli studenti su una specifica abilità inquiry, come ad esempio raccogliere e registrare dati.

L’ inquiry confermativo è, però, considerato un livello basso di inquiry (qualche volta chiamato livello zero) ed è utile solo quando effettivamente gli studenti non hanno alcuna esperienza di attività sperimentale.

Il primo “vero” livello di inquiry è, invece, quello strutturato, in cui la domanda e le procedure sono ancora fornite dall’insegnante, ma gli studenti formulano una spiegazione supportata dalle evidenze che hanno raccolto.

enjoy scienceLa trasformazione dell’attività proposta dalla Unsworth si avvicina, invece, di più a quello che viene definito inquiry guidato in cui l’insegnante fornisce agli studenti solo la domanda da investigare e gli studenti progettano la procedura per testare la domanda e le spiegazioni che ne risultano.

Nonostante questo tipo di inquiry sia molto più complesso di quello strutturato e ha maggiore successo quando gli studenti hanno già avuto molte opportunità di praticare diversi modi di pianificare sperimenti e registrare dati, ho scelto comunque di provare questa strada e ho trasformato la mia attività “tradizionale” in un’esplorazione investigativa, chiedendo agli studenti di progettare e condurre una semplice investigazione e utilizzare quindi i dati raccolti durante l’esperimento per fornire una spiegazione logica e supportata da evidenze.

Prima dell’attività

La lezione precedente l’investigazione, abbiamo fatto una piccola attività cooperativa di analisi di alcune situazioni sperimentali, con cui i ragazzi hanno “ripassato” il significato di variabile indipendente, dipendente e controllata e di gruppo di controllo. Al termine di questa fase preparatoria, ho spiegato ai ragazzi che avremmo invertito la sequenza di apprendimento e avremmo cominciato la nuova unità sulle biomolecole esplorando in laboratorio la loro presenza negli alimenti prima di studiarle e ho quindi fatto un brainstorming sul significato di composto organico, di macromolecola e sui composti organici più comuni negli organismi viventi. Da quanto emerso nella discussione siamo arrivati a concordare che i composti più comuni degli organismi viventi sono lipidi, carboidrati, proteine e biomolecoleacidi nucleici. Quindi ho chiesto ai ragazzi quali di queste macromolecole organiche, secondo loro, sono contenute negli alimenti fornendo anche qualche esempio concreto e dalla discussione è emersa l’idea che i cibi comuni consistono di materiali vegetali, animali o derivati da animali e che solitamente questi cibi sono una combinazione di queste sostanze.

Ho quindi chiesto loro come facciamo a sapere che un dato alimento contenga effettivamente una particolare macromolecola. Chiaramente, la discussione non ha portato ad una risposta precisa a questa domanda ma, grazie alla discussione a livello di classe, i ragazzi hanno potuto riflettere sulle proprie esperienze e sulle loro conoscenze pregresse, diventandone maggiormente consapevoli, avendo dovuto sostenere le proprie idee e fare previsioni che fossero ragionevoli.

In laboratorio.

La lezione seguente, ho iniziato spiegando ai ragazzi che per determinare la presenza di un dato composto organico in un alimento è possibile utilizzare delle sostanze chiamate indicatori. Questi indicatori reagiscono in presenza di una particolare sostanza in una soluzione cambiando colore. Sfortunatamente però “qualcuno” ha perso la scheda tecnica dei tre tipi di indicatori e ora non siamo più in grado di sapere quale sostanza venga rilevata da ciascuno.

Ai ragazzi vengono quindi posti due problemi da risolvere:

  1. quali sono le caratteristiche di una reazione positiva a ciascun indicatore?
  2. Quale sostanza permette di identificare ciascun indicatore?

Ho, quindi, spiegato che nelle varie postazioni avrebbero trovato 3 indicatori di cui due per due diversi carboidrati e uno per le proteine. I due carboidrati individuati dagli indicatori sono il glucosio (uno zucchero semplice) e l’amido (un carboidrato complesso costituito da grandi catene di molecole di glucosio). Ho specificato però che la presenza di uno di questi due carboidrati non comporta che debba esserci anche l’altro.

A questo punto ho fornito ai ragazzi una scheda contenente la composizione di ciascun indicatore, le istruzioni per l’uso e le indicazioni per la sicurezza.

1

Quindi, ho chiesto di cercare di rispondere alle due domande arrivando a progettare una procedura per risolvere il problema delle schede mancanti, individuando le variabili appropriate e i gruppi di controllo (positivo e negativo). Ho anche sottolineato l’importanza della riproducibilità di un protocollo scientifico e che quindi avrebbero dovuto scriverlo spiegando in modo chiaro ogni passaggio possibilmente supportando ogni fase con motivazioni adeguate. Un’altra cosa importante che ho sottolineato prima di cominciare è che gruppi diversi possono progettare esperimenti diversi per risolvere il problema, che non c’è una sola via possibile e quindi di sforzarsi di lavorare in autonomia senza consultarsi con gli altri gruppi.

Poiché i ragazzi non avevano mai fatto attività di questo tipo, sono state necessarie due ore di lavoro. Nella prima hanno analizzato il problema e progettato il protocollo e nella seconda hanno applicato il protocollo (30 minuti) e discusso i risultati come classe (30 minuti). Se si volesse (o dovesse) velocizzare si potrebbero dividere gli studenti in modo che ciascun gruppo testi un solo indicatore e poi si mettono insieme i dati dei vari gruppi durante la discussione di classe, oppure si può ridurre il numero degli alimenti da testare a tre per gruppo (succo di frutta con succo d’uva aggiunto, farina e latte).

Tra gli alimenti più indicati ci sono anche: miele, Sprite, amido di mais, bianco d’uovo, tofu, glutine di frumento, crackers, preparato per purè istantaneo e pollo. Questi alimenti sono indicati non solo per la loro reazione positiva ai test ma anche per la facilità della determinazione della reazione. Ad esempio, il pollo è un’opzione migliore rispetto a manzo o fegato per la facilità di osservazione della reazione positiva.

Se gli studenti fossero, invece, più “esperti” si potrebbe complicare un po’ le cose ad esempio facendo scegliere a loro gli alimenti da testare e inserendo tra questi qualche alimento che non dia reazione positiva nonostante l’appartenenza a una categoria di sostanze ben conosciuta: ad esempio una soluzione al 10% di saccarosio. I ragazzi in questa fase non sanno ancora distinguere i vari monosaccaridi dai disaccaridi e tenderebbero a scegliere questa soluzione come fonte “sicura” di zuccheri, accorgendosi poi di non ottenere alcuna reazione positiva al test.

Problema n.1: quali sono le caratteristiche di una reazione positiva a ciascun indicatore?

Gli studenti hanno dovuto per prima cosa determinare le caratteristiche di una reazione positiva per verificare che effettivamente l’indicatore reagisse con la sostanza da identificare. I primi quindici minuti sono stati critici. I ragazzi sembravano abbastanza disorientati e non sapevano da che parte andare. La cosa più interessante da osservare è stata che non avevano alcuna fiducia nelle proprie capacità “investigative”e ritenevano di non essere in grado di proporre nulla di realmente utile per risolvere il problema. Girando tra i gruppi li ho, quindi, stimolati con alcune domande e li ho incoraggiati anche non accontentarsi dei materiali proposti nella loro postazione, ma a chiederne altri nel caso li ritenessero utili. Ad un certo punto il primo gruppo si è sbloccato e da qui anche gli altri hanno cominciato a “produrre” nuove idee.

Alcuni studenti hanno, infatti, deciso di testare ciascun alimento con tutti e tre gli indicatori per vederne le possibili reazioni, altri hanno pensato che la cosa migliore da fare sarebbe stato testare gli indicatori con delle sostanze pure (ad esempio un gruppo ha chiesto se avevamo del glucosio, un altro dell’amido) e poi testare gli alimenti alla ricerca di una reazione simile. Questi gruppi di studenti hanno deciso di affrontare il problema come un problema a eliminazione, in cui identificare due indicatori sperimentalmente e  il terzo per deduzione logica, confermandolo solo dopo sperimentalmente. Altri ancora hanno pensato di preparare una provetta mescolando i tre alimenti da testare in modo da osservare una reazione positiva a tutti e tre gli indicatori, stabilendo così le caratteristiche di una reazione positiva.

La parte “facile” di questa prima fase è stato, invece, stabilire il controllo negativo da confrontare con quello positivo. Hanno subito compreso che questo avrebbe dovuto essere una sostanza che non avrebbe dovuto reagire con nessuno dei tre indicatori, ossia che non contenga nessuna delle tre macromolecole. I ragazzi sono arrivati facilmente a scegliere l’acqua distillata come sostanza pura ideale per il test negativo.

Problema n.2: ciascun indicatore quale sostanza permette di identificare?

Usando le preconoscenze sulla composizione organica del cibo, gli studenti hanno fatto previsioni su quali macromolecole si potrebbero trovare nei vari cibi proposti. Per facilitare la riflessione, trattandosi di assoluti “principianti”, nonostante avessi scelto di far testare solo tre alimenti, ho incluso nella scheda di laboratorio anche una tabella da completare. Questa tabella è servita ai ragazzi per riflettere sulla composizione degli alimenti e realizzare che alcuni contengono più di una macromolecola.

2

Dati e analisi

La lezione successiva gli studenti hanno messo in pratica senza grossi problemi il protocollo sperimentale che avevano progettato. Nonostante avessero progettato esperimenti diversi, hanno ottenuto tutti dati simili. L’affidabilità dei dati può essere influenzata da molti fattori e aumenta attraverso la ripetibilità. L’analisi dei dati è stata, quindi, completata attraverso l’analisi della congruenza dei dati dei singoli gruppi con i dati della classe e questo ha sicuramente avuto un ruolo importante nell’aumentarne l’affidabilità.

Questo tipo di esplorazione sperimentale ha favorito lo sviluppo di molte delle abilità di processo (process skills): analizzare, descrivere, identificare, fare previsioni, fare inferenze, fare domande, collaborare, valutare, interpretare, leggere, seguire indicazioni, registrare dati, comunicare, osservare, scegliere, confrontare, fare ipotesi, organizzare…

I ragazzi sono stati coinvolti attivamente in quanto hanno potuto fare esperimenti e raccogliere dati, ma la comprensione è stata stimolata soprattutto dalla riflessione sull’interpretazione di questi dati perchè è proprio questa alternanza tra fare e riflettere che sviluppa le competenze dell’inquiry e la comprensione profonda (Flick e Lederman, 2006).

E se sbagliano?

Questo tipo di attività, così poco strutturata e “imprevedibile”, a volte può generare un po’ d’ansia nell’insegnante, una sorta di paura di perdere il “controllo” di quello che accade in classe. Una preoccupazione comune negli insegnanti che si approcciano all’inquiry è legata al fatto che poiché gli studenti sono “senza guida” possono sbagliare e non arrivare da nessuna parte. In realtà, i ragazzi non sono affatto senza guida perché ci sono molti momenti in cui l’insegnante può verificare che gli studenti non prendano “strade senza uscita”. Ad esempio, un’ opzione consiste nel girare tra i gruppi e farsi spiegare la progettazione dell’esperimento per controllare che le investigazioni abbiano senso, oppure si potrebbe dire ai vari gruppi di progettare l’esperimento e di spiegare le proprie idee ai compagni di classe per rifinire maggiormente le attività da fare prima passare alla sperimentazione. Attraverso questa rapida e “pubblica” valutazione delle attività pianificate, l’insegnante può aiutare gli studenti a riflettere sui processi che stanno utilizzando per rispondere alle loro domande e a considerare se altri approcci potrebbero funzionare meglio. La cosa importante da ricordare è di non cedere alla tentazione di correggere direttamente eventuali errori, ma di porre, invece, domande ai ragazzi per aiutarli a riflettere e, se necessario, a correggere il tiro, senza dar loro indicazioni dirette.

Spero che attraverso questo racconto, sia diventato ormai chiaro il fatto che insegnare attraverso l’IBSE non significa solo capovolgere la sequenza spiegazione-attività sperimentale, ma significa anche modificare il nostro ruolo, in un certo senso “capovolgere” anche questo. L’insegnante non è più colui che trasmette la sua sapienza, che “riempie le teste” ma è un facilitatore di apprendimento, che coinvolge attivamente gli studenti e li fa riflettere sulle esperienze attraverso sperimentazioni, lavori di gruppo e discussioni.

Sbagliando si impara?

Come dicevo, gli studenti devono imparare a trarre le proprie conclusioni dai dati (evidenze) sperimentali. Immaginiamo, per esempio, che usando i dati raccolti, i ragazzi abbiano concluso che i reattivi di Fehling siano un indicatore che segnala la presenza di proteine, anziché di zuccheri riducenti (in questo caso glucosio). Anche se questa conclusione non è corretta, se gli studenti hanno supportato questa conclusione con la logica e con i dati, l’insegnante ha comunque un’opportunità per far progredire la loro comprensione. Quando, infatti, viene richiesto di difendere le proprie idee con i dati, gli studenti devono comunque costruirsi una sorta di struttura mentale, un ragionamento basato sui fatti a supporto di queste idee.

Al momento della presentazione delle conclusioni ai compagni, attraverso la discussione con i pari, gli studenti comprenderanno l’errore ma potranno anche discutere il valore delle proprie conclusioni. Anche questo è un processo importante che è proprio della natura della scienza stessa e ha quindi un grande valore formativo. Ancora una volta, il lavoro dell’insegnante è quello di stimolare la discussione e incoraggiare l’espressione in modo che gli studenti possano superare la paura di sbagliare e capire che nonostante l’errore sono cresciuti e hanno imparato.

Per concludere…

Anche se attività di questo tipo possono sembrare troppo complesse da gestire, e quindi scoraggianti, in realtà sono fortemente coinvolgenti e stimolano negli studenti lo sviluppo sia delle abilità di processo che quelle di problem solving (Corder e Slykhius, 2012). Non si tratta, però, solo del coinvolgimento degli studenti che progettano e conducono esperimenti. C’è anche il coinvolgimento dell’insegnante che viene ripagato della fatica nel momento in cui si rende conto di quanto queste attività, accompagnate da discussioni di follow-up, abbiano stimolato la crescita intellettiva dei propri studenti e ne ha anche aumentato la motivazione allo studio. Vi sembra poco?

Uno degli obiettivi formativi della scuola è quella di preparare gli studenti in modo da far conseguire agli studenti anche le competenze chiave di cittadinanza che l’Unione europea ci raccomanda, tra cui risolvere problemi. Possiamo sicuramente affermare che questo obiettivo sia perseguito meglio attraverso l’inquiry.

 

Bibliografia

  1. Abraham and Renner, The sequence of learning cycle activities in high school chemistry. Journal of Research in Science Teaching, Volume 23, Issue 2, pages 121–143, February 1986.
  2. Ronald D. Anderson, (2002), Reforming Science Teaching: What Research Says About Inquiry. Journal of Science Teacher Education.  Volume 13, Issue 1, pp 1-12.
  3. Banchi, H. & Bell, R. (2008). The Many Levels of Inquiry. Science and Children, 46(2), 26-29,
  4. Bransford, J., Brown, A. L., & Cocking, R. R. (2000) How people learn: Brain, mind, experience and school. National Academy Press, Washington, D.C.
  5. Brown, Patrick L., and Abell, Sandra K., January 2007, Examining the learning cycle: Perspectives: Research and Tips to Support Science Education , p. 58-59.
  6. Corder, G. e Slykhuis, J. (2011), Shifting to an inquiry-based experience, Science and Children, 48 (9), 60-63.
  7. Flick, L.B., Lederman, N.G. (2006) Scientific inquiry and nature of science, Springer.
  8. Meyer, Daniel Z.; Kubarek-Sandor, Joy; Kedvesh, James; Heitzman, Cheryl; Pan, Yaozhen; Faik, Sima; “Eight Ways to Do Inquiry: A Study of over 300 Inquiry Activities Recommends Eight Models for the Classroom”, The Science Teacher , Vol. 79, No. 6 , September 2012
  9. Minstrell, J., & Van Zee, E.H. (Eds.). (2000). Inquiring into inquiry learning and teaching in science. Washington, DC: American Association for the Advancement of Science.
  10. National Research Council (2013). Next Generation Science Standards. Washington DC: National Academies Press.
  11. Unsworth, E., Macromolecules Inquiry: Transformation of a Standard Biochemistry Lab, The American Biology Teacher, Vol. 76, No. 7 (September 2014), pp. 438-441. 

Iscriviti alla newsletter per ricevere contenuti fantastici nella tua casella di posta!

*La Newsletter è gratuita e puoi annullare la tua iscrizione in qualsiasi momento!

Iscrivendomi do il consenso a ricevere email e comunicazioni periodiche da IBSE e dintorni e posso disiscrivermi in qualsiasi momento.

Categoria: