Perché insegnate? 

C’è un detto popolare che dice: chi sa fa, chi non sa fare insegna. Scusate tanto, ma… anche no!

Insegnare è un mestiere meraviglioso, ma incredibilmente difficile e delicato e solo chi non sa può pensarla così. È una sorta di one man show che si ripete ogni giorno e più volte al giorno e che richiede sì talento e passione ma anche tanto, tanto lavoro.

Ve lo chiedo ancora. Voi perché insegnate?

Credo che la mia storia sia cominciata quando avevo 16 anni. La mia insegnante di chimica mi detestava e non faceva proprio niente per nasconderlo trattandomi sempre come un’inetta, incapace di fare anche le cose più semplici. Una volta ci chiese cosa pensavamo di fare dopo la scuola. A quell’epoca ero convinta che avrei studiato medicina, era il mio sogno di bambina: diventare medico e andare in Africa a curare le persone. Quando sentì la mia risposta, la cara Prof rise di gusto dicendomi che non ci sarei mai riuscita visto che di chimica non capivo nulla.

In effetti non sono mai diventata medico, ma non per causa sua. In famiglia non sostenevano la mia scelta ed io, probabilmente, non ci ho creduto abbastanza per lottare, per cui alla fine “ripiegai” sulla facoltà più simile e mi iscrissi a biologia. Di una cosa ero sicura, però, non avrei MAI e poi MAI fatto l’insegnante.

Durante gli anni dell’università ho fatto qualche lavoretto per essere più autonoma economicamente e così, non appena acquisite le conoscenze necessarie, ho cominciato a dare qualche lezione di chimica. Un giorno venne da me una ragazzina di 16 anni dai grandi occhi neri e spaventati che, a detta della sua Prof, non capiva proprio niente di chimica. Le chiesi chi fosse questa “insegnante” e, pensate un po’, non solo era la stessa che avevo avuto io ma sembrava proprio che non avesse ancora perso il suo “tocco delicato”.

Chiamatelo destino ma grazie al successo della ragazza agli esami di settembre, al suo sorriso ritrovato, alla chimica finalmente non più “nemica”…ad un certo punto qualcosa dentro di me ha fatto click  e da quel momento ho saputo che non avrei potuto né voluto fare altro nella vita.

Ero certa: io avrei saputo fare la differenza, imparare sarebbe stata una meravigliosa avventura per tutti i miei studenti. Avevo 20 anni e non sapevo niente della scuola, ma mi sentivo determinata come una missionaria diretta in Africa. Nessuno avrebbe potuto fermarmi. E così, in fondo, è stato. A 23 anni ebbi la mia prima opportunità di insegnare e da allora non ho mai cambiato idea.

Negli anni ho studiato tanto e la passione non si è mai spenta. Il dottorato mi ha permesso di continuare a crescere, sto continuando a rinnovare la mia didattica, continuo a leggere e studiare. Quindi… tutto bene, no? Posso ritenermi soddisfatta, giusto?

Imparare a imparare, come tutti sappiamo,  è una delle otto competenza chiave europee e di cittadinanza da acquisire entro il termine dell’obbligo di istruzione.

Si tratta di saper organizzare il proprio apprendimento individuando, scegliendo e utilizzando varie fonti e varie modalità di informazione e di formazione (formale, non formale ed informale), anche in funzione dei tempi disponibili, delle proprie strategie e del proprio metodo di studio e di lavoro.

Imparare ad imparare è, soprattutto, una competenza fondamentale per poter vivere bene in una società che è sempre più fondata sull’uso della conoscenza. Non solo la società in cui viviamo ci chiede di saperlo fare, ma ci chiede anche di continuare a farlo per tutta la vita.

Sull’importanza dell’acquisizione di questa competenza, quindi, siamo tutti d’accordo, ma siamo davvero capaci di insegnare come si fa?

Apprendere qualcosa non è un processo automatico. Richiede sforzo e impegno, ma soprattutto bisogna volerlo. Senza desiderio di apprendere non c’è apprendimento. Quindi…direi che siamo nei guai.

Non dobbiamo “solo” insegnare ai ragazzi come si fa a imparare ma dobbiamo anche convincerli che sia giusto farlo. Missione possibile?

L’estate scorsa sono stata membro interno durante gli esami di  Stato e la delusione per come sono andate le cose brucia ancora. Questi ragazzi li ho visti crescere e nonostante il mio impegno, la passione e  lo sforzo, ho dovuto fare i conti con il fatto di non essere riuscita a “contagiarli”. Certo, alcuni sono stati brillanti e ci hanno dato belle soddisfazioni, ma il dispiacere per quelli che sono rimasti indietro, che hanno finito il loro percorso scolastico annoiati e stanchi brucia ancora.

Come si fa a insegnare la voglia di imparare? 

Essere bravi docenti con i ragazzi bravi è “vincere facile”. La vera sfida è fare la differenza per quelli che invece faticano a trovare dentro di sé la motivazione persino per venire a scuola ogni giorno.  A 23 anni credevo di essere “partita per l’Africa”. Oggi ne ho 53 e ho capito, invece, che il mio aereo non è ancora atterrato.

Vi piacciono i TED talk?

Ce n’è uno che vi consiglio: si tratta  dello speech della Dott.ssa Angela Lee Duckwoth, “Grit, the power of passion and perseverance”.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=H14bBuluwB8&w=560&h=315]

Quando l’ho visto la prima volta, durante gli esami l’estate scorsa, sono rimasta davvero colpita dalle sue parole. Il giorno stesso ho comprato il suo libro e l’ho letteralmente divorato.

Gli studi della Dott.ssa Duckworth, oggi psicologa presso la University of Pennsylvania ma precedentemente insegnante di matematica nelle scuole medie pubbliche,  hanno mostrato che quando si vuole riuscire in una sfida di qualsiasi genere per quanto conti il talento innato, l’impegno conta il doppio. Ciò che veramente conta, quindi, non è il talento, come saremmo portati a credere (lo studente portato per la matematica, ad esempio), ma la grinta (in inglese grit) ossia una combinazione di passione e perseveranza che permette di raggiungere obiettivi a lungo termine senza arrendersi. Secondo la Duckworth avere grinta significa

“lavorare a qualcosa a cui si tiene così tanto da non volere abbandonarlo… Fare quello che si ama. Ma non solo innamorarsi: rimanere fedeli nell’amore”.

Tutto ciò può sembrare scontato, ma se ci pensate bene non lo è affatto perché cade definitivamente il mito del talento naturale e scompare, come d’incanto ogni alibi: il talento da solo non basta, quindi è necessario tirarsi su le maniche una volta per tutte.

Anzi, vi dirò di più. Dagli studi emerge che talento e grinta sono praticamente inversamente proporzionali: doversi conquistare con fatica e sforzo qualcosa porta ad acquisire abilità come la perseveranza e la resilienza, indispensabili per superare qualsiasi sfida.

La fatica e l’impegno non solo portano all’abilità ma anche ai risultati che rendono lo sforzo molto più importante del talento.

Sforzarsi, però, non basta. Secondo lo psicologo cognitivista Anders Ericsson, per avere successo, nel lavoro o a scuola, bisogna avere una pratica intelligente.

Quindi, in sintesi,  per imparare ad imparare ci vuole grinta e se riusciamo a insegnare la grinta ai nostri ragazzi il gioco è fatto.

Ok, ma come si fa? Esiste una “ricetta” che possa andare bene per tutti?

Certamente no. La capacità di persistere con passione dipende dalla motivazione intrinseca, dai valori che abbiamo, da come ci percepiamo. Quindi, che si fa?

Ci ho riflettuto a lungo e sono arrivata a trarre alcune conclusioni: l’IBSE è un approccio potente che guida gli studenti verso la comprensione profonda ma non è abbastanza se non insegniamo ai ragazzi anche come si studia e cosa poter fare per non perdersi d’animo anche quando manca la voglia. Ho scoperto l’acqua calda? Probabilmente sì, ma è evidente, almeno per me, che c’è ancora molto che possiamo fare per migliorare.

Quindi, cari amici, se vi va, nei prossimi mesi continueremo ad esplorare insieme non solo come insegnare le scienze con un approccio inquiry-based ma anche come poter insegnare ad imparare a imparare. Che ne dite?

Prima di salutarvi, però, ve lo chiedo ancora: voi perché insegnate? Vi va di raccontare la vostra storia nei commenti? 🙂

 

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