Mi sono imbattuta nell’inquiry-based learning tanto tempo fa, ho avuto il privilegio di poterlo studiare durante il mio dottorato e ho continuato a studiarlo e a praticarlo una volta tornata a scuola. Insegnare attraverso l’inquiry rimane ancora oggi la mia passione perché stimola la motivazione degli studenti (e anche la mia), migliora l’apprendimento e la persistenza di quanto appreso e i suoi effetti sono talmente evidenti che mi ripagano sempre delle lunghe ore passate alla scrivania per creare o adattare sempre nuove attività.

Non tutto si può studiare in laboratorio in modo diretto e gli ostacoli aumentano sicuramente quando affrontiamo l’anatomia e la fisiologia umana.

Solitamente, i sistemi e gli apparati vengono insegnati in modo lineare, uno alla volta, ma così facendo si corre il rischio di perdere di vista l’interconnessione tra i sistemi e gli apparati del corpo, riducendo così il concetto di omeostasi ad una semplice definizione da imparare a memoria.

La lezione frontale non è sempre sinonimo di noia e disinteresse (da parte dello studente ma anche dell’insegnante). A me piace raccontare “storie” e adoro vedere lo stupore negli occhi dei miei studenti davanti alle meraviglie del nostro corpo, ma raccontare una bella storia (come siamo fatti e come funzioniamo) funziona solo se non si lavora tutto il tempo così.

Certo, se l’unico nostro obiettivo è fare quanti più sistemi e apparati possibile in un “minuscolo spazio vitale”, per dirlo con le parole del genio della lampada, volevo dire… in un minuscolo lasso di tempo, allora avanti tutta così, ma se lo scopo di tutte le nostre azioni quotidiane è l’apprendimento significativo e persistente dei nostri studenti, allora non può bastare.

Sappiamo bene che il semplice atto di ascoltare qualcuno che parla, anche se racconta “storie” meravigliose, non comporta di per sé alcun apprendimento. Per lo più… è intrattenimento.

È un po’ come quando noi partecipiamo ad un corso tenuto da un formatore/una formatrice strabiliante, che ci affascina e ci fa venire voglia di andare a casa e rivoluzionare la nostra didattica. Arriviamo a casa carichi a molla, ma il giorno dopo ritorniamo come sempre al solito tran tran didattico perché la motivazione, da sola, non è abbastanza per affrontare qualcosa di nuovo e quindi difficile. Diverso è, invece, quando partecipiamo ad un workshop in cui siamo coinvolti in ragionamenti e azioni concrete, in cui dobbiamo trasformare in “fare” ciò che ci viene insegnato. Allora sì, che ci portiamo a casa qualcosa che potrà sostenerci mentre cerchiamo di fare un piccolo primo passo verso il cambiamento.

E se questo vale per noi, adulti e con esperienza, vale ancor di più per i nostri studenti.
Ascoltare qualcuno che parla è meno efficace per l’apprendimento rispetto al fare cose (condurre investigazioni, riflettere, ricercare, testare, discutere…). Inoltre, se ci pensate, durante una lezione frontale è anche molto più difficile per noi capire se gli studenti stanno davvero imparando qualcosa. Abbiamo la possibilità di raccogliere molte più evidenze di apprendimento quando organizziamo attività di didattica attiva.

L’apprendimento attivo promosso dall’IBSE fornisce continue opportunità agli studenti di pensare in modo critico alle idee che esplorano, attraverso attività che approfondiscono e sfidano la loro comprensione in una continua alternanza tra fare e riflettere e questo vale anche per discipline come l’anatomia e la fisiologia umana.

Ma quali tipi di attività di esplorazione possiamo proporre?

L’esplorazione diretta di strutture anatomiche (come ad esempio la dissezione di un cuore di maiale che vi ho già raccontato qui) è sicuramente un’esperienza bellissima, ma queste attività, seppur molto motivanti, sono utili solo per fissare le strutture morfologiche studiate.

La comprensione del funzionamento di sistemi e apparati e l’interconnessione tra questi, a mio avviso può essere supportata da attività in cui si analizzano scenari interattivi che simulano il mondo reale, in cui gli studenti hanno un ruolo attivo nel ricercare e/o applicare conoscenze disciplinari e interdisciplinari sviluppando pensiero critico e creativo e capacità di problem solving in un contesto reale.

Gli scenari clinici sono, quindi, un ottimo strumento per affrontare lo studio dell’anatomia e fisiologia umana perché permettono di porre l’attenzione su più sistemi/apparati corporei contemporaneamente e forniscono anche esempi di come i concetti che si stanno imparando possono essere utili nella vita reale.

I nostri studenti sono esposti quotidianamente a quintali di contenuti, anche di carattere scientifico e relativi alla salute, e spesso si formano opinioni su questioni di importanza critica per la loro vita basandosi interamente su articoli e post clickbait che consumano su TikTok, Instagram e su altri siti. Oggi più che mai, è fondamentale insegnare ai ragazzi non solo come sono fatte le cose ma anche come ricercare informazioni scientifiche di valore, come valutare se le affermazioni che trovano sono supportate da prove e come sostenere le proprie affermazioni con evidenze e ragionamenti.

Lavorare con scenari clinici è perfetto anche a questo scopo.

Io lo faccio ogni volta che posso e ve ne ho già parlato anche in passato (rigenerare organi e omeostasi del calcio).
Se l’idea piace anche a voi, ci sono libri da cui partire per prendere ispirazione (ad esempio “Diagnosis for classroom success”) o siti da cui attingere (come ad esempio la NCCSTS Case Collection, creata e curata dal National Center for Case Study Teaching in Science, per conto dell’Università di Buffalo, per gli iscritti all’NSTA americana).

Ma se volessimo crearli noi questi scenari in modo da cucirli addosso ai nostri studenti, come potremmo organizzarli? Quali caratteristiche dovrebbero avere?

Premesso che non credo esista una ricetta per lo scenario perfetto, per quanto mi riguarda, però, io parto sempre da alcune considerazioni:
1. la scienza non ha bisogno di essere spettacolarizzata e personalmente vorrei evitare di sconvolgere i ragazzi con condizioni mediche e disturbi rarissimi e terribili solo per attirare la loro attenzione (non voglio scimmiottare i casi del dott. House, per capirci) per cui, quando possibile, cerco di utilizzare condizioni cliniche che potrebbero incontrare nel corso della loro vita;
2. anche se a volte sembra che il mondo giri attorno ai test di ingresso per medicina, e molti dei miei studenti si preparano per questo, la maggior parte dei ragazzi non ha nessuna intenzione di diventare un medico o un professionista in ambito sanitario, per cui gli scenari devono essere relativamente semplici e, ancora una volta, utili per la loro vita oltre la scuola;
3. se voglio personalizzare l’apprendimento o penso che i ragazzi abbiano prima bisogno di un po’ di guida da parte mia, inizio con scenari semplificati in cui fornisco un testo contenente già tutte le informazioni importanti insieme a domande guida a cui potranno rispondere decodificando le informazioni direttamente dal testo fornito, per poi discuterne insieme in classe. Dopo aver fatto un po’ di pratica con un paio di attività semplificate, passo ai casi di studio basati sulla ricerca in cui fornisco solo i sintomi e una diagnosi e chiedo di ricercare sul libro di testo e online quali condizioni causano quei sintomi e cosa comportano per l’intero organismo.

Come creo lo scenario?
Solitamente parto ponendomi alcune domande:
1. Quali concetti voglio che gli studenti comprendano con questo scenario?
2. Quale storia posso creare per legare i concetti attraverso una narrazione?
3. Come posso far sentire la rilevanza di questi concetti per la loro vita?
4. Come posso enfatizzare l’interconnessione tra sistemi e apparati?
5. Quali competenze voglio far sviluppare con questa attività (fare domande, definire problemi, sviluppare ipotesi, pianificare e condurre investigazioni, analizzare e interpretare dati, costruire spiegazioni basate sulle evidenze, imparare ad imparare, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione, saper comunicare…)?
6. Quali attività o quali domande potranno aiutarmi a capire se i concetti sono stati compresi?

Al termine del percorso di anatomia e fisiologia umana alzo ancora un po’ l’asticella e come compito autentico chiedo agli studenti di creare il loro case report.

Lavorando a piccoli gruppi, sviluppano il loro caso clinico che presenteranno alla classe simulando un possibile contesto di vita reale come ad esempio:

sei uno studente di scuola superiore che sta facendo uno stage presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia della tua città. Come conclusione dello stage devi scrivere un case report sul paziente…. affetto da … raccontandone la storia o un evento che lo vede coinvolto. Il case report dovrà contenere anche una descrizione dei test clinici necessari per fare diagnosi (raggi X, esami del sangue, test delle urine o altri esami fisici) fornendo dettagli specifici e, dove possibile, immagini. Dopo la sezione sulla diagnosi, il case report dovrà concentrarsi sull’anatomia e sulla fisiologia degli organi o apparati coinvolti dalla malattia, specificando in che modo la condizione analizzata causi uno squilibrio nell’organismo. Infine, il case report dovrà includere i modi in cui la malattia può essere trattata. In alcuni casi, non ci sarà una cura, ma si potrà specificare come gestirne i sintomi.

Che ne pensate? Volete provare a crearne uno?

Se vi va di cimentarvi, ecco un possibile scenario da cui partire.

Domenico è un bambino di due anni che è stato adottato. I suoi genitori adottivi lo hanno portato in ospedale per un controllo. Il pediatra ha monitorato con attenzione i suoi progressi nel tempo perché Domenico è stato un camminatore tardivo con tendenza ad inciampare. Durante la visita, il medico nota che Domenico continua ad avere difficoltà nel camminare e ha un’andatura dondolante simile a quella di un’oca (andatura anserina). Sospettando un problema  muscolare non ancora diagnosticato, prescrive degli esami del sangue per il dosaggio dell’enzima creatinchinasi CK (anche detta creatina fosfochinasi), un esame genetico del DNA e un’ eventuale biopsia muscolare.

Gli esami mostrano livelli elevati di CK e una mutazione nel gene per la produzione della distrofina. Il medico non ha più dubbi e a Domenico viene diagnosticata la Distrofia muscolare di Duchenne (DMD).

Fonte immagine: https://www.sareptatherapeutics.ch/it/disease-areas/duchenne-muscular-dystrophy

Come lo sviluppereste? Quali domande guida inserireste?

Se provate a farlo raccontatelo nei commenti! Tutte le vostre idee saranno una formidabile risorsa per tutti! Alla prossima 🙂

Iscriviti alla newsletter per ricevere contenuti fantastici nella tua casella di posta!

*La Newsletter è gratuita e puoi annullare la tua iscrizione in qualsiasi momento!

Iscrivendomi do il consenso a ricevere email e comunicazioni periodiche da IBSE e dintorni e posso disiscrivermi in qualsiasi momento.

Categoria: