Sapete cos’è l’Ikigai?

Ikigai è un termine giapponese che rappresenta la “ragione per cui alzarsi al mattino”, ciò che ci rende felici, il motore delle nostre giornate.

Di recente, su Instagram, mi è capitato di vedere un post di Caterina Stefanazzi, una bravissima docente che ha un blog in cui tiene microlezioni di personal branding per i suoi studenti (e non), che mi ha colpito.

Avevo già sentito parlare di Ikigai nell’ambito della crescita personale per cui, incuriosita, sono andata a leggermi il suo post in cui spiega come creare il proprio Ikigai professionale.

HITOS-Concepto-Ikigai-01Per farlo bisogna porsi alcune domande:

  • cosa ti piace?
  • cosa ti piace e sai fare?
  • cosa ti piace e sai fare ed è utile al mondo?
  • cosa ti piace e sai fare per cui puoi essere retribuito?

Per gioco ho provato e mi sono resa conto che tutte le mie risposte portavano in una sola direzione: insegnare.

Insegnare  è il mio Ikigai professionale perché è ciò che, lavorativamente parlando, mi rende felice, mi dà gioia e mi permette di dare anche il mio piccolissimo contributo al “mondo”, accompagnando i miei studenti nel loro percorso di crescita.

Come dite? Vi sento!

State dicendo: ok, brava, pat pat sulla spalla, e allora?

Perché vi annoio parlando del mio Ikigai? Non è un blog di didattica questo?

Praticamente ogni giorno, ricevo mail da colleghi che mi vengono a trovare sul blog, trovano interessanti alcune cose che faccio o racconto e mi scrivono per chiedermi le schede didattiche o raccontarmi le meravigliose cose che anche loro fanno. Lo confesso, è sempre una gioia leggere le vostre mail soprattutto quando provate le attività e mi scrivete per raccontarmi com’è andata!

Il vostro feedback mi aiuta a capire meglio cosa funziona, cosa invece no e perché, e attraverso le vostre osservazioni posso riflettere su aspetti che magari mi erano sfuggiti. Il magico potere della condivisione, giusto?

Ho sempre pensato, infatti, che ci sia qualcosa di magico e meraviglioso nel fare squadra, nel supportarsi a vicenda tra colleghi, nel nostro caso nell’essere una community anche se per lo più virtuale (alcuni di voi ho la fortuna di conoscerli di persona!).

In passato, per anni,  ho patito la “solitudine” lavorativa. Nessuno mai disposto a raccontare il proprio lavoro in classe, né a progettare insieme qualcosa. Non ho trovato conforto nell’associazionismo e alla fine ho rivolto il mio sguardo lontano, entrando in un’associazione di insegnanti di scienze degli Stati Uniti (l’NSTA). Ho così riscoperto il significato delle parole generosità e condivisione e ho sentito sempre più il desiderio di creare qualcosa di simile, una community virtuale in cui condividere esperienze attraverso il mio blog.

Vi sento! 

State dicendo: ancora? Uff , vuoi un altro pat pat sulla spalla? Un applauso?

No, niente di tutto ciò. La mia ricompensa è la gioia che provo scrivendo di scuola per voi.

E allora? Di che stiamo parlando? Che vuoi? Scrivi e sii felice, no?

È successo qualcosa, di recente, che mi ha fatto riflettere molto e ho sentito il bisogno di condividere con voi anche questo.

Ho visto tante volte, sui social, scatenarsi rabbia e livore anche nei gruppi di docenti, tra i docenti. Ma un conto è guardare tutto questo da spettatore triste e un conto è sperimentarlo direttamente. Di recente, un mio post ha suscitato indignazione in una collega che mi ha subito scritto sottolineando con una certa energia quanto poco appropriato fosse quanto scrivevo.

Inizialmente mi sono messa in discussione andando a rileggere le mie parole. Sono stata fraintesa? Volevo dire una cosa ed è sembrata un’altra? Ho scritto, mio malgrado, qualcosa di offensivo? Può capitare che uno scriva qualcosa pensando di essere chiaro e invece le sue parole suonano in un altro modo, no?

Le critiche costruttive sono fondamentali per crescere ed è per questo che continuamente vi chiedo di dirmi, con sincerità, che ne pensate, perché anch’io, come voi, ho bisogno di confronto, ma questa volta, cari amici, non è andata così.

Il malinteso non è nato per colpa delle mie parole. Il mio post non è nemmeno stato letto per intero, ma totalmente frainteso per via di una lettura superficiale, limitata alla prima riga attraverso un social network.

Ho provato a spiegare alla collega in questione che le cose non erano come credeva, che aveva frainteso leggendo un po’ in fretta quanto avevo scritto, ma mi ha risposto che, in realtà, nel frattempo avevo corretto il post perché, grazie a lei, avevo riflettuto sul mio errore. Insomma, è chiaro, avrei potuto scrivere qualunque cosa e non avrebbe avuto importanza, perché non erano le  mie parole quelle sbagliate ma l’attacco era personale, diretto proprio a me. Perché?

Riflettendo, ho capito, che non ho, in realtà, alcun bisogno di dare una risposta a questa domanda.

Quando ho deciso di aprire questo blog sapevo che sarei diventata in qualche modo vulnerabile, che il condividere il mio modo di vivere la scuola avrebbe potuto non piacere o non essere capito. Ma io sono tra quelli che ritiene che la vulnerabilità non sia una debolezza ma una forma di coraggio, il coraggio di mostrare ciò che sei senza poter sapere in anticipo se andrà bene o no.

Theodore Roosvelt nel discorso che tenne alla Sorbona, nel 1901, disse che

il rispetto va alla persona che si trova nell’arena, il cui volto è sporco di polvere, sudore e sangue, che lotta coraggiosamente, che sbaglia, che fallisce ancora e ancora e ancora e che, alla fine, non solo conosce il trionfo dei grandi successi ma, quando fallisce, lo fa osando in grande.

Ebbene, amici, io non sono perfetta e di certo non sono una martire, ma una cosa la so: io so che, nel mio piccolo, mi trovo in quell’arena e che ogni cosa che scrivo, sperimento o racconto non è perfetto e probabilmente non lo sarà mai, ma so anche che, almeno, quando fallirò lo avrò fatto osando in grande perché in questo blog ci metto la faccia ogni volta che scrivo, sapendo che ogni mio errore sarà dovuto alla mia grande voglia di trovare il modo per fare sempre meglio questo lavoro che amo tanto.

Questo post l’ho scritto di getto, perché lo sentivo nel cuore, ma ho riflettuto a lungo prima di decidere se pubblicarlo o meno. L’ho scritto per me, per chiarire a me stessa che qualunque critica  potranno mai farmi in futuro (perché sono certa che succederà ancora e per cose più importanti di questa) io saprò che non mi ferirà, perché come dice Brenè Brownse non siete anche voi nell’arena a farvi prendere occasionalmente a calci nel sedere da qualcuno perché siete coraggiosi, il vostro parere sul mio lavoro non mi interessa. 

Per chi vorrà, ci rivediamo sempre qui la prossima settimana. 🙂

Un abbraccio

Barbara

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